Introduzione
Parlare del sogno apre uno spiraglio da cui è possibile trarre tantissimi spunti e che è possibile ammirare da tantissime prospettive differenti.
Il motivo che mi ha spinto a scrivere dei sogni è molto legato alla curiosità che muove ogni paziente quando arriva in seduta a condividere con me il racconto di un sogno.
Non è semplice parlare dei sogni sia per la complessità del tema, sia per la molteplicità di prospettive attraverso cui poter leggere i processi onirici. Si può dire che le ricerche sul sonno e sul sogno sono già molte e molti altri spunti di indagine aprono il varco ad altri svariati campi percorribili di ricerca.
Lo sguardo con cui approccio al sogno in questo articolo è neurofisiologico e psicoanalitico.
La scelta di dare spazio a questi due ambiti sta nel fatto che ritengo importante mettere in luce come il sogno abbia, al contempo, sia una funzione fisiologica che psicologica. Entrambe queste funzioni si intrecciano, si combinano e ci conducono alla scoperta di noi stessi e alla nostra evoluzione psicofisica.
Psicofisiologia del sogno: perché il nostro cervello sogna
Da un punto di vista fisiologico il sonno, cosí come la veglia, ha la funzione di “elaborare, organizzare e integrare i dati nella memoria […]” (Fosshage, 2008, p. 281). Il sonno presenta un’alternanza di cicli regolari di sonno Non REM (NREM) e di sonno REM. Il primo avrebbe una funzione di recupero e ristoro per l’organismo, il secondo avrebbe una funzione di fissazione in memoria delle informazioni immagazzinate durante il giorno e di integrazione e rielaborazione di esse.
Molti studi sono stati condotti per cercare di comprendere la funzione che il sonno ha per il nostro organismo e, dunque, anche che funzione possa avere il sogno. Un team di ricercatori guidato da Giulio Tononi, psichiatra e neuroscenziato impegnato negli studi sulla coscienza, ha analizzato nel 2006 le aree cerebrali che si attivano durante il sonno potendo individuare la presenza di un’attività onirica anche durante la fase NREM. Questo, come altri studi, hanno permesso di ampliare lo sguardo al sogno, riferendosi ad esso non solo più come a qualcosa relegato nella fase REM del sonno, ma come attività cerebrale presente più in generale durante lo stato di sonno.
Il sonno, secondo Tononi e Cirelli (2000), servirebbe a garantire e proteggere la neuroplasticità così da evitare una saturazione di spazio cerebrale e poter apprendere nuove informazioni giorno dopo giorno. Mentre noi dormiamo, quindi, il nostro cervello si rigenera, si ampliano le connessioni cerebrali, si consolidano le informazioni e se ne scartano altre; come se dopo ogni sonno ne uscissimo un po’ “trasformati”.
Uno degli aspetti su cui gli studiosi si sono interessati molto riguarda il rapporto tra processo onirico e coscienza. Per coscienza si intende, secondo Edelman e Tononi (2000), la capacità che un sistema fisico ha di integrare informazioni. Rispetto a questa capacità integrativa, gli studi di Tononi e Massimini (2013) hanno messo in evidenza come in stato di veglia e in stato di sonno NREM e REM ci sia una differenza di complessità integrativa: nello stato di sogno NREM un minor numero di informazioni sarebbero in grado di essere integrate. Nello stato di sonno REM il cervello, invece, inizierebbe ad integrare informazioni. Vi sarebbe, quindi, quindi una similitudine tra lo stato di sonno e quello di veglia.
Dunque, anche nel processo onirico esisterebbe una possibilità, più o meno potenziale, di integrare informazioni. Questa continua attività di processamento e integrazione di informazioni ci può far riflettere sulla continuità elaborativa che può esserci nel nostro sistema cerebrale durante il sonno e durante la veglia.
Il sogno, infatti, secondo Oliverio (2009) sarebbe un “processo simbolico di elaborazione, interpretazione, riorganizzazione in una sequenza narrativa del materiale accumulato nella memoria durante la veglia” (p. 65). Questa complessità di processamento di informazioni si può riscontrare anche nelle differenze con cui i sogni vengono poi portati alla luce nella veglia: negli studi di Jouvet (1993) è emerso come nello stato REM emergessero in modo più netto la strutturazione spaziale, il livello di partecipazione, il numero di parole usate per narrarlo e il livello di bizzarria; invece nel processo onirico in fase NREM sembrerebbe ci sia una minor attivazione corticale e quindi una elaborazione minore delle esperienze memorizzate ed una capacità narrativa ridotta.
La complessità di informazioni che viaggiano nel nostro sistema cerebrale varia durante lo stato di veglia e lo stato di sonno, così come le loro interconnessioni. Mentre gli studi che esplorano le differenze quantitative tra le esperienze di veglia da quelle di sonno risultano essere sempre più ampie, più complesso è invece indagare le differenze qualitative tra questi diversi stati.
Sicuramente un ambito molto interessante di studio riguarda il ruolo giocato dai processi mnestici durante il sonno ed il sogno. Rispetto a questo, Zhang (2004) vede nei sogni un lavoro di sintesi: attraverso il sogno la memoria più recente sarebbe assemblata con il materiale già presente, in modo che le informazioni immagazzinate siano compatibili con quelle già possedute in memoria. Uno studio interessante è stato guidato da Ernest Hartmann (2006), che fu presidente dell’International Association for the Study of Dreams, secondo il quale i sogni permetterebbero di integrare elementi e pensieri che altrimenti rimarrebbero sconnessi nella vita conscia.
Tutti questi studi possono essere uno spunto di riflessione rispetto a quanto, mentre noi dormiamo, inconsapevolmente il processo onirico ci fornisce (attraverso immagini, sensazioni ed emozioni) una serie di elementi che appaiono spesso confusi ma che creano un insieme di tasselli di un “puzzle”. Cosa possiamo farci, dunque, con questi “tasselli onirici”?
Il sogno in psicoanalisi
La psicoanalisi ha avuto, ed ha tutt’ora, il merito di essere la disciplina che approccia al sogno come un elemento che crea continuità tra conscio e inconscio, come quello spazio che ci dà accesso ad una parte più inconsapevole di noi stessi.
Freud (1989) ha aperto la pista allo studio del sogno definito come la via che conduce all’inconscio, una strada che permette di aprirci a significati personali a noi sconosciuti prima. Ciò che nel corso della storia psicoanalitica è profondamente cambiato è il valore che si dà al processo onirico: se con Freud il sogno aveva la funzione di mascherare e camuffare qualcosa che non poteva emergere (laddove gli impulsi e i desideri dovevano necessariamente apparire in sogno in forma mascherata), già con Jung il sogno acquista un nuovo valore. Esso infatti viene trattato non più come qualcosa che nasconde qualcos’altro; bensì come qualcosa che informa sulla persona che sogna. Il sogno, così, diventa una “autorappresentazione spontanea della situazione attuale dell’inconscio espressa in forma simbolica” (Jung, 1978, p.282).
Il sogno in quanto autorappresentazione è un elemento che ci dice delle cose su noi stessi attraverso delle sensazioni, delle immagini e delle emozioni che si presentano nel processo onirico tramite i simboli. Fromm (1951) parla di una sorta di linguaggio simbolico attraverso cui si esprime un’esperienza interiore come fosse un’esperienza sensoriale. Il simbolo, per Jung, è l’espressione di qualcosa che non è chiaro perché esprime una realtà che non ha avuto ancora accesso alla coscienza.
Il sogno ha un valore nel processo di individuazione personale, perché esprime la struttura psichica del sognatore e, al contempo, lo sforzo che il sognatore fa nella sua vita diurna per mantenere questa struttura e risolvere i conflitti che sono per essa minacciosi. Nel sogno, inoltre, spesso si presenta attraverso i simboli anche la problematica che la persona affronta nel suo momento di vita e i tentavi che fa per superarla.
Il sogno esprime dunque il modo in cui stiamo al mondo e le problematiche interiori che affrontiamo per poter mantenere un nostro equilibrio interno. In quest’ottica esso assume una funzione “prospettica” (Jung, 1978, p. 273).
Ma come può il sogno divenire cosciente e dirci qualcosa su come siamo fatti? Attraverso la narrazione.
Nel momento in cui si racconta il sogno si mettono in parole l’insieme di simboli onirici, questi simboli iniziano così ad essere “pensabili”: possono essere conoscibili, possono essere connettibili tra loro e acquisire la capacità di essere oggetto di riflessione.
Per Bion (1989) al sogno è affidato il compito di trasformare le esperienze della veglia in forme che le rendano elaborabili e, quindi, pensabili.
In una visione prospettica il sogno, se narrato ad alta voce, esce dal livello implicito ed entra nel mondo della riflessività donandoci spunti di riflessione per pensare a ciò che siamo, a ciò che di noi vogliamo mantenere e a ciò che vorremmo cambiare.
In altre parole ci può dare nuovi spunti e nuove informazioni su noi stessi.
Nel panorama psicoanalitico diversi altri autori hanno sottolineato questo ruolo importante del processo onirico: Padel (1978) ha messo in luce come per Fairbairn il sogno esprima un blocco dove la persona si è fermata e, al contempo, il tentativo che essa fa per superare tale blocco. Kohut (1977) anche considera il sognare come un tentativo di mantenere coesi noi stessi a fronte di una minaccia, proveniente dallo stato di veglia, a questa sensazione di integrità. Anche per Fosshage (1983) il sogno esprime un tentativo di mantenere una certa organizzazione di sé a fronte di qualcosa che nella vita quotidiana ha turbato un certo equilibrio. Altri autori, quali ad esempio French e Fromm (1964), Fairbairn (1944), Khout (1977), Erikson (1949), pur centrando su aspetti diversi le loro teorie sul funzionamento psichico, vedono nel sogno un elemento importante poiché esso mostra l’organizzazione psichica della persona che sogna.
Come ci ricorda Tricoli (2008) oltre a mostrare l’organizzazione psichica dell’individuo, il sogno ci racconta come la persona mantiene quella organizzazione, quali sono le sue strategie.
La ricchezza con cui noi psicoanalisti leggiamo il sogno credo che ben si sposi con la visione epistemologica del sogno di cui parla Mancia (1996), ossia quella che vede il sognare una fonte di conoscenza su noi stessi: “sognare significa darsi un essenziale strumento di conoscenza di sé e dei propri oggetti, di cui la mente ha bisogno per mobilitarsi e crescere” (ibidem, p. 128).
E allora? Cosa ne facciamo di ciò che sogniamo?
“Il sogno esiste in quanto “tradotto” in parola” (Tricoli, 2008, p.300), questo significa che finché non decidiamo di narrarlo rimane impossibile da pensare. Il sogno non ha un senso assoluto, né un significato univoco. Nel processo terapeutico il paziente che racconta un sogno cerca di compiere un lavoro di traduzione e significazione del sogno sognato mettendo assieme dei simboli e cercando per essi delle parole e un senso. Tale lavoro di “assemblaggio” e costruzione, però, il paziente non lo compie in solitario bensì assieme al proprio terapeuta che, in qualche modo, partecipa a questa costruzione di senso guidando il processo riflessivo del paziente su di esso.
Fosshage (1997) sostiene che il terapeuta ha il compito di mettere in evidenza l’esperienza onirica del paziente. Questo non significa sostituirsi alla persona che sogna ma stimolare la riflessione di essa sul sogno, ampliarne l’esperienza, facendo domande in merito al racconto, al contenuto, agli elementi presenti in esso, chiedendo vissuti, associazioni e stati d’animo del sognatore all’interno del sogno stesso.
Chiunque provi a fare questo “esercizio” da solo si accorgerà che non è semplice dare un senso agli elementi del sogno, né cercare di ampliare la riflessione su di esso una volta sveglio.
La funzione della relazione terapeutica in rapporto al sogno è proprio quella di donare ad esso un ruolo importante: quello di un elemento che aggiunge informazioni sul paziente, sul processo terapeutico stesso e sul momento di vita che la persona sta attraversando.
Non esiste un significato universale dei sogni, ed è proprio questo che li rende ricchi e speciali: perché sono quanto di più intimo e personale può mostrare un paziente. Esso, attraverso il racconto onirico, regala alla relazione terapeutica qualcosa di ignoto ma di profondo che riguarda se stesso ed è (più o meno consapevolmente) disposto a portarlo alla luce; ovvero è disposto a riflettere nella relazione terapeutica su tutti gli elementi che lo riguardano e che possono emergere durante il dialogo sul sogno.
Mancia (1996) parla metaforicamente del lavoro onirico nello spazio terapeutico come una partita di scacchi: con mosse, attese, movimenti … tutti tesi a produrre e far produrre una conoscenza sul sogno. Ma non è un “gioco” unidirezionale! È qualcosa che prende vita dallo spazio mentale di analista e paziente, perché mettere in parole i simboli onirici è il risultato dell’incontro tra i partecipanti alla relazione terapeutica, non è un lavoro solitario.
È la coppia analitica, insieme, a costruire un significato condiviso del sogno che possa avere un senso e un’utilità per la crescita personale del paziente.
Riferimenti bibliografici
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