Implicazioni psicologiche e risorse personali per affrontare un processo tumorale
L’esperienza del ricevere una diagnosi di neoplasia
L’esperienza del venire a conoscenza di essere malati può essere un evento così inaspettato da generare un vissuto emotivo di non gestibilità.
Per gestire le esperienze che ci capitano nella vita, e per mantenere una visione coerente, unitaria e stabile nel tempo di noi stessi, attribuiamo un significato a tutte le esperienze che viviamo. Venire a conoscenza di essere malati potrebbe essere vissuto come qualcosa a cui sarebbe troppo angosciante attribuire un significato perché bisognerebbe fare i conti con tutta la gamma di emozioni spiacevoli che si potrebbero provare, e con la possibile “disintegrazione” dell’immagine di se stessi. Non riuscire ad attribuire un significato personale all’esperienza della malattia che si sta vivendo rischia di non permettere di “digerire” ciò che sta capitando e di non permettere di elaborare l’evento stesso dell’avvento della patologia tumorale.
Quali conseguenze?
Nel caso della comunicazione di un tumore, la diagnosi può essere un’esperienza vissuta come emotivamente così forte da diventare non pensabile. “Cosa significa per me essere malato? Come mi sento dopo aver appreso questa notizia?”. Queste sono domande a cui la persona non può rispondere. In altre parole l’individuo non può dare un senso personale a ciò che gli sta capitando, ma può solo essere solo in grado di attivare delle risposte emotive (come ansia/senso di soffocamento, paura, spavento/rabbia, tristezza/senso di vuoto). Queste risposte emotive sono avvertite come qualcosa che non può essere spiegato, come risposte che non possono essere gestite né controllate. La sensazione è quella di essere sopraffatti dalle proprie emozioni.
Queste emozioni possono consolidarsi nel tempo e possono presentarsi in modo imponente ogni volta che nella quotidianità capita di vivere delle esperienze che sono associabili a quella del tumore. Questo processo avviene in maniera inconsapevole: la persona si può sentire ansiosa, triste o arrabbiata, ma non riesce a capire perché, né riesce a gestire i propri vissuti emotivi: avverte diversi stati (come il senso di soffocamento, il nervosismo, il senso di vuoto, ecc.) che però non riesce a spiegarsi, né riesce ad avere un controllo su di essi, con la conseguenza di sentirsi impotente di fronte alla diagnosi della malattia ed alle reazioni che ne conseguono.
Ricevere una diagnosi di tumore può essere dunque considerata un’esperienza emotivamente così forte che si potrebbe essere spaventati dal doverne gestire le conseguenze. Per tale motivo, al posto di dare un significato personale all’evento, la persona è in grado solamente di attivare risposte emotive (come rabbia, dolore, paura ecc.) che però sono avvertite come fuori controllo e invalidanti.
La malattia come evento critico
La persona costruisce un’immagine di sé, e di sé in rapporto agli altri, grazie all’interazione con l’ambiente che lo circonda, e tenta di preservare queste immagini per mantenere una visione di sé che sia coerente ed unitaria (Mitchell, 1988).
La persona è costantemente attiva per poter mantenere questo senso di coerenza interna e lo fa attribuendo significati su di sé e sul rapporto con l’altro in tutte le esperienze che vive.
La patologia tumorale può essere considerata come un elemento imprevisto e perturbante che mette in crisi questa coerenza.
Venire a conoscenza di essere malati può rischiare di intaccare questo senso di integrità e coerenza interna, perché:
- può cambiare, o bloccare, la progettualità verso il futuro;
- può cambiare il ruolo rivestito nelle relazioni affettive;
- può essere minacciato il senso di integrità fisica;
- può essere minacciata l’immagine che si ha di sé.
Tutti i vissuti emotivi che si possono provare lungo il decorso della patologia (come il senso di perdita, di vuoto, di ferita intima, la paura), intaccano la persona nel profondo e possono mettere in crisi:
- Il modo in cui la persona sente di essere;
- Il modo in cui la persona si relaziona con gli altri.
Una malattia che attacca e minaccia il corpo, quindi, attacca e minaccia anche l’immagine globale che la persona ha di se stessa. L’essere malato può comportare il distogliere l’attenzione della propria progettualità di vita nel mondo per concentrarsi esclusivamente sul corpo (e sui suoi segnali) e sulla malattia che non consente più di progettarsi nel mondo come prima.
Il rischio è quello che la persona possa pensarsi esclusivamente come individuo malato.
È importante poter esternare e mettere in parole quali sono i significati attribuiti alla malattia, quale è il senso personale che la persona attribuisce alla patologia tumorale ed alle trasformazioni corporee che essa può comportare.
Essere a contatto con ciò che si prova ha importanti conseguenze!
Conoscere il proprio mondo interno (ricco di emozioni e significati) permette di:
– rendere le emozioni legate alla patologia meno invalidanti, ingestibili e insopportabili;
– recuperare o costruire un senso di azione nel mondo, una progettualità nella propria vita, qualunque essa sia;
– riguadagnare la sensazione di potersi prendere cura di sé e di mettere in campo tutte le risorse personali possibili per il proprio benessere personale e relazionale;
– permette di comunicare agli altri ciò che si sta attraversando.
Parlare delle trasformazioni corporee che si vivono durante la patologia, ed imparare ad ascoltare le emozioni che queste trasformazioni suscitano, aiuta a recuperare un senso di unità.
Solo se si entra a contatto con le proprie paure ed i propri dolori, è possibile dargli un nome e cambiare il senso dell’esperienza che si vive; rendendo le emozioni legate alla patologia meno invalidanti, ingestibili ed insopportabili.
Il sostegno psicologico in affiancamento alle cure mediche. Perché può essere importante durante il processo della malattia tumorale?
È doveroso ricordare come l’intervento dello psicologo nei casi di patologie organiche debba essere sempre affiancato da un intervento medico mirato e specifico per la persona.
Ma, nello specifico, quali sono le risorse psicologiche sviluppabili che possono aiutare un paziente durante il decorso della patologia?
Autoriflessività e conoscenza del nostro mondo emotivo: due capacità che aiutano a stare meglio
È assolutamente normale provare intensi vissuti emotivi di fronte alla diagnosi di tumore. Non è patologico o sbagliato vivere periodi o momenti in cui si piange, si sente di aver perso la voglia di fare progetti, di interesse nelle cose, ci si sente impotenti o qualsiasi altro vissuto emotivo si provi.
Quando si vivono questi momenti significa che si è a contatto con quello che si prova, la persona può raccontarlo a se stessa e avere la capacità di condividere la sua esperienza con qualcun altro e questo può aiutarla nell’affrontare la patologia e nel mantenere rapporti soddisfacenti. Questi periodi non si protraggono in modo continuativo nel tempo e non limitano la persona costantemente e continuamente nel vivere la propria vita.
Diventa invece invalidante per la persona, e fonte di profonda sofferenza, il non poter tollerare di essere a contatto con la propria sofferenza, ascoltarla, e dar voce e nome ai pensieri ed alle emozioni che si provano quando ci si rapporta con il tumore.
Abbiamo visto come la diagnosi tumorale può essere concepita come una esperienza invalidante perché non può essere pensata; cioè non si può attribuire un senso personale alla comunicazione della malattia. (La persona non è in grado né di chiedersi, né di rispondere alle seguenti domande: “Come sto vivendo questo evento? Cosa provo rispetto a quello che mi sta capitando?”).
Questo non potersi chiedere queste cose, è in qualche modo la “strategia” (inconsapevole) che la persona adotta per evitare di stare a contatto con l’angoscia che potrebbe provare se raccontasse a se stessa come sta vivendo la scoperta del tumore, o il decorso della patologia; o per evitare di avvertire delle sensazioni che potrebbero essere ritenute inaccettabili per sè.
Gli aspetti che ci fanno paura della malattia (perché inconsapevolmente li riteniamo inaccettabili per noi stessi) li teniamo lontani da noi.
Si pensi, ad esempio, alla profonda paura di essere abbandonati da una persona cara di fronte al pensiero di dover condividere il processo della malattia con lei. Questo può essere un timore talmente forte da far sì che l’individuo, inconsapevolmente, non si senta pronto ad accettare la comunicazione della diagnosi e neanche ad occuparsi della sua patologia, perché fare questo comporterebbe anche fare i conti con la paura che la malattia distrugga il suo rapporto di coppia.
Tenere l’esperienza del tumore lontano dalla mente potrebbe, quindi, essere l’unica strategia che la persona possiede per cercare di fronteggiare l’evento. È come un “far finta” che quell’evento non ci toccherà, che la patologia non abbia toccato proprio se stessi, che in realtà va tutto bene. Mentre in parallelo l’evento della diagnosi di tumore tocca in maniera dirompente a livello emotivo senza però che la persona sappia il perché vive determinate emozioni, e senza che riesca a sentire di avere un controllo sulle sensazioni che la colpiscono.
Allora la sensazione che si può provare è quella di una serie di sintomi che accompagnano l’individuo nella propria quotidianità e che sono avvertiti come qualcosa che limita la propria vita (per esempio: l’agitazione, l’insonnia, l’ansia, la mancanza di piacere nello svolgere qualsiasi attività, la mancanza di interesse nello svolgere qualsiasi attività).
Alcuni autori hanno evidenziato come le persone affette da tumore possano provare diverse emozioni e sensazioni: ansia, tristezza, negazione della propria malattia, rabbia, paura e impotenza (Caserta et al., 2016; Biondi et al., 1995).
I vissuti emotivi e le strategie che si possono mettere in atto per cercare di non sentire la sofferenza provata sono un patrimonio unico ed originale di ogni individuo e non è possibile generalizzare le reazioni che avvengono quando si apprende di essere malati. Ognuno, a seconda delle proprie caratteristiche personali e della propria storia, può attribuire diversi significati alla malattia, più o meno consapevolmente. Tra i più frequenti troviamo:
- La malattia vissuta come punizione: sentimenti di colpa rivolta verso di sé e comportamenti di rassegnazione;
- La malattia vissuta come nemico da combattere: sentimenti di lotta, sfida, spirito combattivo;
- La malattia vissuta come male che allontanerà le persone care: sentimenti di bisogno e dipendenza dell’altro.
La mentalizzazione e funzione riflessiva: capacità che promuovono il benessere
Immaginiamoci per un attimo come potrebbe essere la nostra vita se non sapessimo chi siamo, cosa vogliamo, cosa proviamo, o cosa pensa l’altro che sta parlando con noi, e se quello che mi dice l’altro non so se lo sto pensando io o lo pensa l’altra persona.
Oppure immaginiamoci come potremmo sentirci se non riuscissimo a capire se la persona che interagisce con noi è arrabbiata con noi o semplicemente è stanca per la giornata impegnativa che ha avuto. O ancora, pensiamo a quanto potremmo soffrire se, in un momento di grande spavento, non riuscissimo a placare la nostra paura in alcun modo e non sentissimo di essere in grado di tranquillizzarci autonomamente.
Noi sviluppiamo, sin dall’infanzia, delle competenze che ci aiutano a poter fare tutto questo.
Tra queste competenze abbiamo la funzione di “mentalizzazione” (Fonagy, Target; 2001). È una forma di attività mentale immaginativa, principalmente pre-conscia, che può essere definita come la capacità di cogliere e interpretare i propri ed altrui comportamenti in termini di stati mentali come: bisogni, desideri, emozioni, credenze, obiettivi, intenzioni e motivazioni.
Lo sviluppo della funzione di mentalizzazione è molto importante. È una risorsa preziosa in ogni momento della nostra vita, così come lo è nel percorso volto ad affrontare la patologia tumorale, perché:
- Si riesce a sentire che il proprio comportamento ha una motivazione (io agisco per uno scopo, il mio comportamento ha un valore e un senso);
- Si possono gestire le emozioni senza esserne sopraffatti (riesco a cogliere che emozione sto provando e posso fare delle ipotesi su cosa me l’ha generata e su come potrei affrontarla);
- Si possono controllare gli impulsi (evito di assumere dei comportamenti improvvisi e impulsivi senza sapere perché li sto mettendo in atto, metto in atto dei comportamenti senza avere la sensazione di doverli mettere in pratica solo perché non riesco a controllarmi e a farne a meno);
- Si possono auto-monitorare i propri comportamenti (cioè si può valutare se un proprio comportamento sta avendo i risultati sperati oppure no e, se non li sta avendo, si può scegliere un comportamento alternativo);
- Si può ipotizzare cosa sta provando e pensando l’altro e mettere in atto dei comportamenti conseguentemente all’ipotesi fatta (posso scegliere un comportamento sulla base di quale penso che sia il più adatto per relazionarmi all’altra persona);
- Si può sentire di poter incidere attivamente sulla propria vita (se io penso che le mie emozioni nascono da me e si generano nella relazione con gli altri, se io penso che scelgo come agire nelle esperienze che vivo, per quanto drammatiche e difficili siano, posso sviluppare la sensazione di poter intervenire nella mia vita in modo attivo e non avere la sensazione di subìre passivamente tutto ciò che mi capita).
Ci sono certamente degli eventi che capitano che ci rimandano la sensazione che il loro verificarsi non dipenda da noi. Nel caso del tumore certamente la guarigione, o il peggioramento dello stato di salute, non dipendono esclusivamente e in tutto e per tutto dai comportamenti che la persona può o non può mettere in atto. Ma certamente lo sviluppo della mentalizzazione dona la possibilità di sentire che nel processo patologico la persona sta mettendo in atto dei comportamenti che sta scegliendo; e li sta scegliendo perché pensa che la possano aiutare a sentirsi il meglio possibile per la situazione di salute che sta vivendo.
Una capacità strettamente legata alla funzione di mentalizzazione è la riflessività. La funzione riflessiva, o di mentalizzazione, è la capacità che il soggetto ha di pensare il mondo, gli eventi a cui è partecipe e la propria interiorità, sia come espressione affettiva ed emotiva del rapporto con le proprie esperienze di vita, sia anche come capacità di immaginarsi, di intuire, di dare un senso all’esperienza che il soggetto fa di sé, dell’altro e del mondo (Cozzaglio, 2017).
Questa funzione consente di creare legami tra le esperienze emotivamente coinvolgenti che la persona vive nella propria esistenza. La creazione di questi legami permette di creare dei nessi tra avvenimenti fino ad allora mai messi in relazione.
Ad esempio: sviluppare l’auto-riflessività significa anche poter sentire e dire a se stessi come ci si sente nel proprio corpo e poter esprimere come si vive un corpo “minacciato” da cellule malate o sempre allertato che si possa ri-ammalare. Se ci si ascolta, si impara a conoscere se stessi ed il modo in cui si reagisce a determinati tipi di eventi. Questa consapevolezza porta ad una possibilità di individuare quali sono i comportamenti che la persona mette in atto che la fanno sentire bene, e quali quelli che la fanno soffrire; con la possibilità di modificarli o arricchirli.
Sviluppare la funzione autoriflessiva ci permette di conoscere come ci comportiamo e cosa proviamo nelle esperienze che viviamo.
È questa funzione che dona a noi stessi un’idea di noi come coerenti nel tempo, che ci permette di sentire che esistiamo e che siamo in un determinato modo. Una scarsa capacità auto-riflessiva può portare alla sensazione di frammentarietà, di incomprensione rispetto a ciò che ci accade o a ciò che pensiamo. Come se ci sentissimo spaesati e incoerenti in ciò che facciamo ed in ciò che proviamo.
A cosa sono utili la capacità di mentalizzazione e lo sviluppo dell’autoriflessione?
Sono due capacità che nella vita possono aiutarci, e possono aiutare anche nel corso della malattia tumorale a:
- Conoscere i propri vissuti emotivi rispetto alla patologia:
conoscere i propri vissuti, come abbiamo visto, rende tollerabili le emozioni che fanno soffrire, quali paura o tristezza, le rende meno invalidanti, più gestibili e meno immobilizzanti (ad esempio: se conosco cosa mi spaventa, difficilmente proverò uno stato di ansia, poiché l’ansia si avverte quando è presente qualcosa che a livello inconsapevole spaventa ma che non può essere espresso in nessun altro modo).
Poter dare un nome a ciò che proviamo o sentiamo, ci consente di trovare un posto dentro noi stessi all’esperienza che abbiamo vissuto e che ci ha generato quelle emozioni di cui non riusciamo a parlare perché vissute come troppo forti per poterci fare i conti. Ci consente di acquisire una maggiore consapevolezza di come noi reagiamo a ciò che ci succede e abbassa notevolmente l’impatto emotivo che gli eventi hanno su di noi.
- Conoscere il modo in cui si reagisce e si affronta il processo tumorale (emozioni, pensieri, azioni):
Questo permette, in primis, di poter riconoscere e accettare che la malattia faccia parte della persona (“posso accettare che la malattia fa parte di me”) e permette di conoscere il modo in cui si vivono le esperienze che riguardano la propria malattia e i comportamenti messi in atto rispetto alla patologia. Questo, in qualunque stadio della patologia ci si trovi, dona un senso di azione sulla propria vita e la sensazione che si stiano mettendo in campo tutte le risorse di cui quella persona dispone in quel momento della sua vita. La consapevolezza del modo in cui si vive la malattia è un elemento importante per l’integrazione del processo tumorale nella propria storia di vita: “posso accettare che la malattia fa parte di me” e una risorsa per imparare a mettere in campo di nuove strategie funzionali per affrontare la malattia e la sofferenza che ne può conseguire.
- Conoscere il modo in cui ci si relaziona con gli altri significativi rispetto alla propria patologia:
Questa consapevolezza apre la possibilità di far conoscere agli altri come si sta vivendo il processo tumorale, cosa ci si attende e di cosa si ha bisogno dall’altro. Offrire all’altra persona una conoscenza di se stessi, la aiuta a comprendere cosa l’individuo con un tumore sta attraversando.
A cosa può essere utile un percorso psicologico, in affiancamento alle cure mediche, durante un processo tumorale?
Avere una presa in carico multidisciplinare significa volersi bene e avvalersi di professionisti che, ognuno dalla propria angolazione di competenza, si occupano di individuare percorsi e strategie finalizzate alla cura e alla promozione del benessere del paziente e delle persone per lui significative.
Pensare alla malattia è il primo passo per costruire un nuovo equilibrio: significa poter dotare di senso quello che sta accadendo. Mettere in parole la propria esperienza di malattia è faticoso, ma permette di “tradurre” tutte quelle emozioni tenute dentro, quel dolore che si fa sempre più pesante ma che non trova parole per essere pensato e condiviso.
L’effetto della patologia, comporta delle modificazioni corporee da un punto di vista fisico; e comporta anche delle modifiche da un punto di vista psicologico. L’effetto psicologico dell’avvento della malattia è quello di una modifica del senso del proprio essere al mondo.
L’intervento psicologico mira a comprendere questa modifica e a “tesserla” all’interno della storia di vita del soggetto, per donare un senso al vissuto personale di fronte alla patologia. Quello che una persona può provare di fronte alla malattia è qualcosa di unico, così come è unico ogni individuo che affronta un processo tumorale. Così come ogni iter diagnostico, terapeutico e prognostico può essere variabile da persona a persona; così anche l’intervento psicologico accoglie l’unicità di quella specifica persona sofferente, nella sua personale storia.
Lo psicologo può:
- Accompagnare la persona nel processo della malattia, sostenendo l’espressione e la comprensione del suo mondo interiore (emozioni, pensieri, credenze, aspettative ecc.);
- Incoraggiare l’esplorazione e la costruzione di risorse che rendano la persona più soddisfatta rispetto a:
- la propria immagine di sé;
- il rapporto con le persone significative;
- il modo di affrontare la patologia tumorale.
Nella relazione terapeutica si può costruire assieme al paziente un percorso che possa sviluppare delle modalità più adattive possibili per affrontare la malattia e dare un senso a quanto è accaduto.
È importante sottolineare quanto ogni intervento terapeutico va costruito assieme al paziente sulla base delle sue caratteristiche, della sua storia e della fase del processo tumorale in cui si trova.
È molto importante accogliere l’unicità di chi richiede un intervento perché bisogna accogliere ciò che quella specifica persona sta vivendo in quello specifico momento.
Pensiamo ad esempio a quanto possa essere utile, per una persona a cui è stato riscontrato un tumore nei primissimi stadi poter lavorare assieme per cercare/costruire o ri-mettere in movimento un senso di progettualità verso il futuro.
È chiaro, invece, che mettere in modo questa progettualità per un soggetto che si trova ad uno stadio molto avanzato del processo tumorale, sarebbe certo bello ma poco realistico perché si tratterebbe di ignorare tutti i vissuti emotivi che quella persona sta provando in quel momento, che forse sono molto lontano dal pensare ad una progettualità futura e molto più vicino alla paura della morte. Sarebbe quindi più indicato accogliere la paura e la sofferenza e poter parlare anche di temi delicatissimi e spesso impensabili, quali la fine della vita.
La collaborazione tra medici e psicologi: una preziosa risorsa
Il confronto e la collaborazione tra medici e psicologi può portare beneficio al paziente perché rende la presa in carico e l’intervento di cura il più ricco e personalizzato possibile.
Il medico (o i medici) che seguono il paziente (come ad esempio oncologi medici, radiologi, chirurghi, radioterapisti) nel suo percorso di cura, possono informare lo psicologo sulle implicazioni fisiologiche che quel paziente sta vivendo in uno specifico momento del processo della patologia; cosicché lo psicologo possa cogliere in maniera ancora più globale e ricca quale possa essere l’esperienza che il paziente sta vivendo rispetto alla malattia.
Lo psicologo può informare i medici rispetto ai vissuti emotivi che vive il paziente e rispetto a cosa vuole dire per lui avere un tumore, in tal modo il medico può disporre di maggiori informazioni sulle caratteristiche del paziente che possono orientare il modo di comunicare informazioni mediche al paziente stesso.
Riferimenti bibliografici
Biondi M., Costantini A., Grassi L. (1995), La mente e il cancro. Insidie e risorse della psiche nelle patologie tumorali, Il Pensiero Scientifico, Roma;
Caserta V. et al. (2016), La rappresentazione di malattia nel paziente oncologico: uno studio sperimentale, Giornale Italiano di Psico-Oncologia, 18(1-2), 9-15;Galimberti U., 1979, Psichiatria e Fenomenologia, Feltrinelli, Milano;
Cozzaglio P. (2017), Livelli di coscienza e psicopatologia: oltre il dualismo mente-corpo, Ricerca Psicoanalitica, XXVIII,1, 66-85;
Fonagy P., Target M. (2001), Attaccamento e funzione riflessiva, Raffaello Cortina, Milano;
Mitchell S.A. (1988), Relational Concepts in psychoanalysis, Harvard University Press, Cambridge, (trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1993).
Per un approfondimento, è possibile leggere l’articolo “Parlare del tumore ai bambini” .